IN NOME DELLA MADRE di Erri De Luca: la mia recensione.

Un libro letto tutto d’un fiato che mi ha regalato serenità ma soprattutto una rinnovata commozione è In nome della madre, un breve romanzo di Erri De Luca del 2006 e pubblicato daFeltrinelli. E’ il racconto in prima persona della forza e dell’audacia di Miriàm/Maria, la donna “scelta” a svolgere un grande compito, quello di procreare il Salvatore dell’intera umanità.
La storia, come ben noto, si svolge in Galilea, nel mese di marzo dell’anno 0, e Miriàm, ancora adolescente, avvolta dal venticello primaverile, riceve inaspettatamente la visita di uno sconosciuto che le annuncia l’arrivo di un figlio destinato a grandi cose.

“Gli angeli. Si sa che sono loro quando se ne vanno. Lasciano un dono e pure una mancanza”.

Ancora rivestita di una polvere celeste come fosse magia, la giovane rivela la notizia al suo fidanzato Iosef, subito travolto da sbigottimento e spavento. La dolce Miriàm, con tutta la sua calma, si mette in ascolto del suo amato che si mostra preoccupato e impensierito per l’opinione degli anziani e per la dolorosa sorte che spetta alla sua giovane sposa, incinta prima delle nozze. Entusiasmata dagli eventi, con serenità e gioia, Miriàm prova tenerezza ma anche gratitudine verso Iosef, il quale le crede e la sostiene sin dal primo momento.

 “Con la tenerezza venne la gratitudine. Mi aveva creduto. Contro ogni evidenza si affidava a me…”.

Iosef deciderà di sposare Miriàm e troverà il coraggio di affrontare i giudizi della comunità, in seguito agli ordini ricevuti in sogno da un angelo.

Come ben noto, non si tratta di una storia inventata, ma è frutto di quanto conservato nei Vangeli di Matteo e Luca e questo ce lo fa presente l’autore sin dalla prefazione. Tuttavia, il racconto è originale proprio perché De Luca è riuscito a concentrarsi su un fotogramma della storia e a snocciolarla con grande cura e delicatezza regalandoci l’immagine di Miriam/Maria che nella sua profonda umiltà si rimette alla volontà di Dio; inoltre, il segreto condiviso dai due, Miriam e Iosef, li lega così intimamente che li rende “famiglia” ancor prima di esserlo.

E’ interessante apprendere come l’autore riesca a interpretare i pensieri cullati di una donna incinta, che fantastica sul suo bambino, al quale parla con instancabile costanza:

“Non ho niente di speciale, sono il tuo recipiente… Però sei stato messo dentro di me da un fiato di parole, non da un seme”.

Sa i miei pensieri. E’ un maschio e mi rimprovera. Occupa tutto il mio spazio, non solo quello del grembo. Sta nei miei pensieri, nel mio respiro, odora il mondo attraverso il mio naso. Sta in tutte le fibre del mio corpo. Quando uscirà mi svuoterà, mi lascerà vuota come un guscio di noce. Vorrei che non nascesse mai…”

Quanta dolcezza e quanta poesia tra queste righe che cullano il lettore e lo guidano in un percorso umano e nello stesso tempo spirituale. Si tratta, a mio avviso di una forma di preghiera, con un’immagine di Maria vista semplicemente come una donna che accoglie in pienezza il dono della maternità. Il piccolo concepito non da goccia d’uomo ma da refoli di vento di un annuncio, giunge dall’ombra della gravidanza alla luce di una notte emblematica. Mentre Miriam lo stringe al suo petto e lo accarezza, ne assapora la tenerezza, ne sente l’odore, e si rende subito conto dell’importanza della Missione che suo Figlio dovrà svolgere sulla Terra. Righe colme d’amore regalano un grande emozione ed è, infatti,  questo il momento più commovente di tutto il racconto: il sopraggiungere delle preoccupazioni che assalgono una madre quando si ritrova a toccare con concretezza il suo bambino e le parole dell’annuncio fanno eco, si propagano come un avvertimento che inizia a insidiare la perfezione del tempo elegiaco della sua gravidanza.

“ Signore del mondo benedetto, ascolta la preghiera della tua serva che adesso è una madre (…) Lo chiamo Ieshu come vuoi tu, ma non lo reclamare per qualche tua missione. Fa’ che sia un cucciolo qualunque…”

Miriàm, la madre di tutte le donne, è costretta a lasciare la placenta dell’attesa e ad esprimere il vuoto improvviso.

“Che vuoto fulmineo mi hai lasciato, che spazio inutile dentro di me deve imparare a chiudersi(…) A terra sulle pietre della stalla c’è la placenta, il sacco vuoto della nostra attesa”.

Poi, dopo aver continuato a respirare a ritmo degli stessi battiti del suo prediletto e il giorno comincia a far capolino scardinando la notte, Miriam è pronta per presentarlo al mondo e naturalmente a Iosef che attende impaziente sulla porta.

“Ieshu, bambino mio, ti presento il mondo. Entra Iosef, questo adesso è tuo figlio”.

Marinella Tumino

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